Caso Vannini: Samuele Valente intervista Federico Ciontoli

Caso Vannini:

È la notte tra il 17 e il 18 maggio del 2015. Siamo a Ladispoli. Il ventenne Marco Vannini viene raggiunto da un colpo di pistola. Morirà qualche ora più tardi.

Inizia così uno tra gli iter processuali più complessi e più discussi a livello nazionale degli ultimi anni. Nella sentenza d’appello bis del 30 settembre la Corte d’Assise di Roma condanna Antonio Ciontoli a 14 anni di reclusione per omicidio volontario e i famigliari Federico, Martina Ciontoli e Maria Pezzillo a 9 anni e 4 mesi per concorso anomalo.

È stata fissata al 3 Maggio l’udienza in Corte di Cassazione dove potrebbe chiudersi definitivamente la vicenda e rendersi esecutiva la pena.

Qual è il tema del Caso Vannini?

Ma dal filone iniziale del primo grado, passando per la Corte d’Appello d’Assise, per la Suprema Corte, fino ad arrivare alla Corte d’Assise d’appello bis, il thema decidendum della questione è sempre stato il medesimo: è configurabile nella condotta degli imputati il dolo eventuale o la colpa?

Oggi abbiamo con noi Federico, che all’epoca dei fatti aveva 23 anni. Per noi è importante che il lettore nel corso di questa intervista tenga ben distinta la sua posizione. È importante che facendosi un’idea, la realizzi valutando Federico come singolo, benché si è sempre abituati a pensare secondo lo schema impreciso e poco chiaro “della famiglia Ciontoli”.

Segue l’intervista a Federico Ciontoli da parte di Samuele Valente.

Federico Ciontoli
L’intervistato, Federico Ciontoli

Samuele Valente: da concorso in omicidio colposo a concorso anomalo in omicidio volontario. Cosa è cambiato per lei?

Federico Ciontoli: quando Domenico Ciruzzi, il mio avvocato, mi chiamò al telefono dopo la lettura della sentenza di Appello Bis e mi disse “Federico, è andata male”, rimasi senza fiato per qualche secondo. Lui mi comunicò la sentenza, e io risposi “Va bene”. Non avevo parole.

Se davvero era successa una cosa del genere, allora non aveva davvero più senso che io provassi a fare niente. Già non potevo essere d’accordo con le sentenze precedenti, perché io so come sono andate le cose e non sentivo di meritare nemmeno quelle condanne. Ma l’ultima sentenza, con la condanna per omicidio volontario, ha spento le mie speranze di essere giudicato per le mie vere responsabilità.

Quello che è stato più sorprendente per me è che la ricostruzione dei fatti è stata modificata, nonostante le uniche nuove prove furono i dati del GPS della macchina, che dimostrano che io non ero in casa nei primi almeno 5-6 minuti dell’arrivo dei soccorritori e la testimonianza di Viola, la quale tentò di spiegare come sono andate le cose, ripetendo ciò che aveva detto nei due gradi di giudizio in cui è stata assolta. Come hanno fatto a condannarmi per omicidio volontario?

S.V.: dopo anni di silenzio ha deciso di farsi avanti per far valere le sue ragioni e mettere in luce le sue verità. Cosa l’ha spinta in particolare ad aprire un profilo social e non pensa che questo possa incrementare ulteriormente l’odio nei suoi contorni?

F.C.: La paura, la sofferenza, il rispetto, il credere di dover salvare le energie per poter essere presente in aula e raccontare la verità, ed il fare i conti con pensieri ed emozioni più grandi di me. Questa è solo una parte di quello che fino a pochi giorni fa mi ha immobilizzato pubblicamente.

Ho sempre pensato che fosse importante far sapere come sono andate veramente le cose, portando alla luce le tante strumentalizzazioni, manipolazioni e falsità dei mass media.

All’inizio credevo che questo potesse essere fatto nel processo, dove si sarebbe potuto ristabilire la verità rispetto alle falsità dette in programmi televisivi e riviste. Ma questo chiaramente non è successo. E quindi ora sto provando a farlo da me.

Quando ho trovato finalmente le forze emotive di espormi sapevo a cosa sarei andato in contro, sapevo che avrei ricevuto offese, insulti, accuse, e minacce di morte. Emotivamente parlando, è stato come gettarsi in una piscina di vetri. Basta dare una occhiata alla maggior parte dei commenti sul mio profilo per capire il livello di odio di cui si parla.

Nonostante sapessi che minacce e insulti sarebbero arrivati, leggere certe cose è devastante, e non penso sia possibile umanamente sostenere il peso di tanto odio.

S.V.: c’è chi ritiene ancora che a sparare sia stato Federico Ciontoli…

F.C.: non so come sia stato possibile poter permettere di accusarmi di una cosa così grave davanti a milioni di telespettatori. Questa è una ipotesi che è stata scartata scientificamente fin dall’inizio, tutti sapevano che era falso, eppure per lungo tempo si è creduto veramente a questa ipotesi. E ancora oggi ricevo minacce per queste strumentalizzazioni televisive.

S.V.: a proposito di questo ultimo aspetto, si discute da sempre in questi casi del ruolo dei media e dell’informazione. Quanto hanno interferito con il processo?

Vorrei non dovermi trovare a fare questa affermazione, ma la pressione dei media, così come la pressione politica, a me è sembrata avere un ruolo non trascurabile nelle varie fasi del processo. In particolare nell’ultima sentenza, dove sembrano essere stati introdotti gli stessi elementi che in questi passati sei anni si sono fatti strada attraverso false ricostruzioni e insinuazioni nei programmi televisivi.

So che quello che dico, in uno Stato di diritto e in un Paese democratico, è grave. Sia chiaro, non ho elementi certi per dire che ci sia stata un’influenza diretta o indiretta dei mass media sui giudici, e sarebbe scorretto da parte mia fare una affermazione del genere. Il dato di fatto oggettivo è che la sentenza motiva la mia colpevolezza con molti elementi che sono contraddetti dagli atti di causa. E quegli elementi sono gli stessi elementi che i mass media hanno falsamente sostenuto fino ad oggi nelle loro ricostruzioni.

D’altra parte, la pressione politica è stata incredibile. Forse non si tratta di causalità, ma una correlazione sembra esserci.

S.V.: ad oggi conosciamo la posizione dell’opinione pubblica maggioritaria, spesso molto dura, che ritiene, come del resto emerge dai commenti ai suoi post, che la pena più adeguata è anche quella più severa possibile. Quale sarebbe invece l’esito processuale più giusto secondo lei?

F.C.: non potrò mai sentire una sentenza di condanna per omicidio come un esito processuale giusto e coerente con quello che ho fatto quella sera. Si dice che le condotte degli imputati sono da ritenersi “indissolubili”, ma io ho chiamato il 118 dopo 10 minuti solo per un attacco di panico contro la volontà di mio padre, sono andato a capire cosa fosse successo in bagno, dove trovai il bossolo, di fatto “smascherando” la versione di mio padre, gli intimai di chiamare di nuovo il 118, scesi in strada per velocizzare i soccorsi, e appena arrivato al Pit andai dai genitori di Marco a dire cosa era successo.

Vorrei si potessero valutare le mie eventuali responsabilità individuali, mettendo da parte le responsabilità di tutte le altre persone coinvolte in questa storia. Vorrei poter essere giudicato sulla base di quello che dicono gli atti.

E soprattutto vorrei si potesse valutare la possibilità della mia innocenza, vorrei si provasse a guardare gli atti di causa togliendo gli occhiali della colpevolezza e indossando quelli della possibile non colpevolezza. Sono certo che se si provasse a fare questo, la verità processuale sarebbe molto diversa da quella che emerge nell’ultima sentenza.

S.V.: ritiene che gli atti ad oggi contengano spazio per questo esito?

F.C.: sì, sono convinto di questo, e se oggi sono qui a parlare è anche perché penso ci sia ancora il tempo e la possibilità affinché questo emerga. La verità non evita solo a me una condanna ingiusta, ma restituisce anche giustizia all’intera vicenda.

Provo ad entrare nei dettagli. Questo è quello di cui sono stato accusato:

  1. Di aver riconosciuto lo sparo perché sono un esperto di armi. Secondo la sentenza, io sarei un esperto di armi perché ho frequentato la Nunziatella. Alla Nunziatella, io avevo tra i 16 e i 19 anni e ho sparato solo due volte durante un campo militare con un fucile che era stato preparato lì da altri, e del quale non avevo la più pallida idea di come si montasse, smontasse o altre cose del genere. Dovevo solo premere il grilletto, senza sapere nient’altro. Non ho mai preso una pistola vera in mano, se non quella sera per toglierle da dove eravamo tutti noi. Fu mio padre a dire di metterle in sicurezza, dove si intendeva prima di tutto metterle al sicuro e toglierle da dove eravamo tutti noi. Come si può dire che sono un esperto di armi? D’altra parte, gli atti di causa dicono che nessuno dei vicini riconobbe il rumore dello sparo, che lo sparo non fu uno sparo standard (arma difettosa, sporca e non manutenuta, proiettili del 1982 e dentro l’arma per 8 anni). Inoltre, le intercettazioni ambientali sono chiare sul fatto che io non seppi dello sparo fino al ritrovamento del bossolo, avvenuto dopo circa 30 minuti, e che quando chiamai il 118 ero convinto si trattasse solo di un attacco di panico. Perché questo non è stato considerato?
  2. Di aver pulito “attentamente” armi e bossolo, invece di preoccuparmi di soccorrere Marco. Per questo non ci sono prove. Anzi, la perizia del ris sulle armi non fu in grado di identificare scientificamente l’appartenenza delle impronte non perché queste erano state cancellate attentamente, ma perché era presente un “commisto” con più picchi. Se le impronte c’erano, come avrei potuto pulirle? In più, nelle intercettazioni ambientali è chiaro che dico che sul bossolo troveranno le mie impronte. E questo per dire che così gli inquirenti potranno capire che sto dicendo la verità sul ritrovamento del bossolo. E invece…
  3. Di aver pulito il sangue. Ma questo io non l’ho mai fatto e non può essere provato. La prima volta che vidi il sangue fu dopo circa 20-25 minuti, sul letto, e fu quello insieme alle urla di Marco (comparse nello stesso momento), che mi spinse a dubitare che si trattasse di un attacco di panico e andare in bagno a capire cosa fosse successo. Lì trovai il bossolo. Corsi a dire a mio padre di chiamare il 118. Ad ogni modo, si parla di quantità minime, gocce, e non di litri, come falsamente sostenuto anche da alcuni avvocati. Si trattò di un’emorragia interna, il che impedì di accorgersi di cosa stesse accadendo.
  4. Di essere stato consapevole subito della gravità. Ma io non sapevo del colpo, pensavo fosse solo un attacco di panico (su questo le intercettazioni ambientali sono dirimenti). E comunque, nemmeno i soccorritori e i medici, anche sapendo del colpo di pistola, avevano compreso la gravità della situazione. Il medico chiese se Marco avesse “assunto droghe”, e reputò la ferita di secondaria importanza. Come avrei potuto capire la gravità io sapendo per 30 minuti che si trattava di un attacco di panico?
  5. Di non aver detto ai soccorritori del colpo di pistola. I dati del GPS della macchina dimostrano che per almeno i primi 5-6 minuti dall’arrivo dei soccorritori io non ero in casa, ma che ero con Viola in strada (assolta in tutti i gradi di giudizio). Quindi, così come Viola, non ascoltai il dialogo tra i soccorritori e mio padre sull’accaduto, ma arrivai in un secondo momento. Allora perché si continua a dire che io c’ero? L’infermiera dice così, ma l’infermiera è stata considerata inattendibile in due gradi di giudizio date le molteplici contraddizioni. E possiamo davvero trascurare l’influenza del processo mediatico sul possibile tampering del testimone?

Spero si considerino le intercettazioni ambientali (e tutti gli altri atti di causa) non per trovare le ragioni della mia colpevolezza, ma nella loro interezza, per capire se sono responsabile o meno. Sono certo che se si farà questo, non si potrà parlare di omicidio volontario, e sarà chiaro che io quella sera feci il massimo nel limite delle mie possibilità.


Samuele Valente

Articolo di Samuele Valente

Studente di giurisprudenza presso Università Cattolica, collabora con numerosi blog ed è membro attivo di LIT.

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